Abbiamo incontrato Daniele Vignali, laureato in filosofia e dirigente di una scuola secondaria di secondo grado di Roma, che pubblica con Armando Editore un piccolo volume che già dal titolo ci porta a profonde riflessioni sulla scuola come entità e sull’identità della stessa. “Ontologia dell’istruzione” , appunto, analizza i criteri, i limiti e i confini; nonché il processo di decostruzione che gira intorno a quella che è oggi l’istruzione in Italia.
La prima domanda è su come nasce l’idea di questo libro. Perché questa forte necessità di “far comprendere” a tutti qualcosa che sembra quasi sempre offuscato, se non proprio oscurato?

In realtà quest’opera non nasce da un’idea, ma da un’esigenza e da un sentire. È, prima di ogni altra cosa, un’opera del sentimento che impone una profonda riflessione sullo stato attuale dell’agire educativo e dell’istruire. Lo scritto non si origina da un’osservazione dall’alto e distaccata, ma da una lacerante esperienza dal basso e può essere definita come un urlo proveniente dall’interiorità dell’organismo e del sistema di cui si occupa. La necessità di presentare un’opera di tal sorta trova la sua genesi nella convinzione che sia ancora possibile un cambiamento, tuttavia – come abbiamo affermato – non esiste cambiamento che non poggi su un riconoscimento e non esiste riconoscimento che non sia nel contempo una presa di coscienza e, conseguentemente, un atto di autocoscienza. Lo scopo che si propone l’opera è di indurre perplessità, di favorire una riflessione critica e di ingenerare il dubbio, la scepsi, come unico presupposto della presa di coscienza di cui si è parlato in precedenza.
La tua analisi nasce da una lunga esperienza sul campo e da un attento spirito critico. Cosa manca di fatto alla nostra scuola? Quali sono, secondo te, quei cambiamenti radicali che potrebbero salvare i nostri giovani e prepararli veramente alla vita futura?
Ammesso che esista salvezza, il problema dell’istruzione e dell’educazione nel momento attuale non è un problema di formulazione, ma di fondazione. Da ciò consegue che ogni possibilità positiva e qualsivoglia cambiamento non possano poggiare su una semplice riformulazione, bensì esclusivamente su una rifondazione! Dunque, il sistema istruzione non si deve riformare, ma rifondare, abbandonando la prospettiva economico – quantitativa, a vantaggio di una prospettiva filosofico – qualitativa. Sembra necessario e doveroso modificare i presupposti e i fondamenti dell’attuale sistema formativo, il quale, seguendo i criteri di una ragione calcolatrice e tecnocratica, reifica l’alterità rendendola strumento e addirittura merce in funzione dell’avvilente principio dell’utilizzabilità.
Possiamo definire questo libro provocatorio, nonostante tutto sia sotto gli occhi di tutti. Qual è secondo te la “chiave di volta” per il superamento di questo gap?
Proprio il fatto che quanto descritto, in relazione al sistema di istruzione ed educazione vigenti e imperanti nel momento attuale, sia sotto gli occhi di tutti, come sottolineato nella domanda, è l’elemento che desta maggiore smarrimento e preoccupazione. Se, appunto, è sotto gli occhi di tutti e non viene percepito, è indiscutibilmente nostro compito prioritario renderlo percepibile e per così dire portare ogni nostro interlocutore ad “aprire gli occhi”; se, al contrario, viene percepito e ritenuto nella norma e addirittura norma, allora è nostro compito destare un moto di coscienza che induca a una salvifica ribellione.
Chi è o chi dovrebbe essere il “docente” per Daniele Vignali?
Abbiamo definito il docente “autentico” nel quarto capitolo dell’opera come: maestro della comprensione, maestro del dialogo, maestro dell’ontologia, maestro della scepsi e apologo del nichilismo. Il vero docente è spinto e determinato dall’interesse (inter – esse) verso i discenti e gli educandi, un interesse inteso come cura e presenza costante, egli è capace di approssimarsi delicatamente all’alterità e di stabilire un rapporto empatico e sincero con l’altro. Tale docente non è mai un severo giudice che, nel valutare, pesa e misura il discente e non si lascia imbrigliare e inaridire dalle fredde procedure peculiari della burocrazia imperante nelle odierne istituzioni educative. L’insegnante educatore è un orecchio che ascolta, un occhio che posa uno sguardo delicato, una mente che comprende e non giudica, un cuore che sente all’unisono e una ragione che indica una via, in un percorso che passa dall’esteriorità all’interiorità, dalla soggettività all’intersoggettività, dall’unilateralità alla piena reciprocità.
Il volume termina con una sorta di passaggio di testimone. L’ultimo capitolo è una trasmissione di valori, di conoscenza, di saperi. Perché hai optato per questa conclusione così personale e, permettimelo, carica di emotività e “amore”? È una dedica esclusiva ai tuoi figli o la parola “figli” assurge verso un qualcosa di più universale?
Più che un passaggio di testimone, si tratta di un vero e proprio testamento morale. Ho più volte definito l’Ontologia dell’istruzione come un’opera del sentire e ciò che nasce dal sentimento trova la sua legittima conclusione nel sentimento. In realtà non si tratta di aver optato per una conclusione a vantaggio dell’altra, ma potrei dire che, dal mio personale punto di vista, si tratta dell’unica possibile conclusione di un’opera come quella che ho presentato. In uno scritto che si occupa di educazione è sembrato, inoltre, doveroso un riferimento a quelli che per ciascuno sono gli educandi per eccellenza, ossia i propri figli.
Marianna Zito